di Arianna Luci
"Io ai santi non ci credo, sia chiaro. Sono fatti con lo stampo e dentro sono bacati. Sono di gesso. Ma quella sera questo santo, che ero io, era di carne ossa e sentimenti...un santo così lo puoi credere secondo me... e gli puoi voler bene... e tutto quell'odio me lo figuravo come amore votivo."
Ho mal di stomaco e nausea assieme. La nausea di quando smaltisci l'ubriacatura, felice e svuotato per il troppo pieno. Il vino che ho bevuto fino all'ultimo goccio è quello mesciuto da Peppino Mazzotta per il laboratorio "L'attore drammaturgo di sé" tenutosi al PTU dal 23 al 30 settembre, inserito nella rassegna di attività delle residenze teatrali. Ho il copione nello stomaco, è per questo che fa male forse. Giuseppe Zangara, il protagonista del testo, di Peppino Mazzotta, da un’idea di Giovanni Sole, d'altra parte, non è un boccone che si digerisce al primo colpo. Una sorta di creatura a metà strada tra un latente genio sofferente di cistifellea e un curioso folletto demoniaco, mosso da un immanente bisogno di giustizia ancestrale pre-anarchico(?), o semplicemente il suo malessere fisico, è il calabrese di Ferruzzano che ebbe tra le mani, per un istante, il potenziale di stravolgere la storia d'Occidente, cercando di attentare al presidente neoeletto degli USA Roosevelt nel 1933. Il corpo è una galera dove si sconta la colpa ontologica di esistere. Si pensa di evadere rifugiandosi nel proprio personaggio quotidiano. Trascurando gli infiniti specchi da scoprire dietro le nostre spalle, orecchie, mani, ginocchia. "Bisogna starci dentro. La comunicazione che vuoi far passare la decidi tu. L'importante è pensare sempre al punto d'arrivo; pure due pagine possono essere una risposta secca. Perché ogni personaggio é/ha un ritmo, subordinato a quello del ruolo." Il piccolo mastodontico Peppino passa a tutti i partecipanti delle lime per segare le sbarre del carcere psico-fisico ed evadere in Giuseppe Z., nel compagno s/forzato di cella Grandinetti, piuttosto che nella bomba inesplosa Dixie, nello stanco agente, o ancora, nei due battibeccanti testimoni dell'accaduto; sta al singolo attore imparare da quale verso utilizzarle. Si muore sempre troppo presto per capirlo. Ma non bisogna temere ciò; altrimenti morto diventa il tempo, riempito con pleonasmi gestuali incomprensibili. E allora la comunicazione diventa confusa, si blocca. Al massimo, il tempo si può rubare: "Devi pensare solo che sei stanco. Il tuo unico obiettivo è bere sto cazzo di caffè e fumare una sigaretta. Tutto il resto c'è, ma non te ne frega nulla. Devi arrivare alla fine, pensando che questa scena non c’è. Tempo rubato, ecco." Il mal di stomaco. Tutto il resto c'è, ma non te ne frega niente, uccidere il presidente, il capitalismo, e blablà. L'idea si fa meccanismo, e ti ritrovi con un mal di stomaco che da empatico si fa patetico e poi spasmodico. “Nulla di mistico, il teatro. Basta solo individuare di volta in volta la chiave per farlo funzionare, un meccanismo appunto.”
« Avanti, premi il bottone! »
n.b. le parti virgolettate alla francese sono tratte dal testo ‘Giuseppe Z.’